SCHEDA
Autori: Arsenio e Chiara Frugoni
Titolo: Storia di un giorno in una città medievale
Editore: Editori Laterza, «Robinson/Letture»
Sede: Roma-Bari
Anno: [1997] 2007
Genere: monografia, urbanistica medievale, storia sociale
Argomento: aspetti di vita quotidiana nelle città italiane del bassomedievo
Biblioteche: personale. Facilmente reperibile in molte biblioteche dell’Emilia-Romagna, quali ad esempio le Biblioteche dell’Università di Bologna collegate ai Dipartimenti di Discipline Storiche (inv. 24061, coll. VIII B 00000000000759) e Paleografia e Medievistica (inv. 13163, coll. MAN 1 0000000001519), la Biblioteca Classense di Ravenna (inv. 331129, coll. DEWEY 940.1 80; inv. 318810, coll. COLL. LA. 002 145) e la Biblioteca della Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali di Ravenna (inv. 5495, coll. BIBLIO 940.17 FRUA) .
ABSTRACT
La città medievale è davvero l’espressione di una grande epoca della storia italiana, sia che si guardi alle città marinare (Venezia, Genova, Pisa), dominatrici con le loro navi dei traffici del Mediterraneo e presto ricche di lontane colonie commerciali e di possedimenti, sia che si guardi alle grandi città delle industrie fiorenti della lana, della seta, delle armi, dei potentissimi banchi, sia che si guardi alle città più piccole, ma ricche di splendide opere d’arte.
Utilizzando un linguaggio semplice e lineare, il testo preso in esame affronta il modo di vivere una giornata qualsiasi, tra XI e XII secolo, “in una di quelle città tutte serrate l’una all’altra”, di cui in Italia si possono ritrovare numerosi esempi.
Nel pensiero collettivo, l’immagine ideale di una città italiana del Medioevo si arricchisce di elementi pittoreschi che non sempre corrispondono alla sostanza della realtà storica. Proprio in questa direzione si muovono quindi gli Autori del libro, intenti a scardinare immagini stereotipate di ambienti urbani e stili di vita per un’epoca che, agli occhi di molti, si presenta ancora piuttosto oscura. L’affollamento di case entro mura ristrette, torri di colore scuro e vie strette e tortuose sono solo aspetti parziali di una realtà molto più complessa e variegata.
Il primo capitolo, che segue l’introduzione di Arsenio Frugoni e dà avvio al racconto di una giornata in una città medievale, è dedicato alla scansione del tempo nel Medioevo, espressa attraversi l’analisi iconografica di alcune miniature dei secoli XIII-XV. Si tratta di raffigurazioni articolate, scandite da riquadri che raffigurano alcuni momenti della vita quotidiana (il ciclo delle attività agricole, il ciclo religioso, il ciclo delle stagioni). Tuttavia, fra il tempo come rappresentazione ciclica della fatica umana e la rappresentazione della natura “come un quadrante d’orologio”, si innesta un terzo tempo, quello della città. Qui, al posto del tempo atmosferico e del succedersi delle stagioni, al posto del lavoro agricolo che costringe l’uomo a seguire il tempo, in città ci sono le azioni dell’uomo, il lavoro diversificato, specializzato, innovativo, azioni che costruiscono un tempo diverso da quello della fatica: il tempo della memoria.
Ad un primo capitolo introduttivo segue un secondo, che entra nel vivo dei temi annunciati dal titolo e dall’Introduzione al volume: “La strada che porta in città”. Attraverso un excursus sulle testimonianze storiche dell’epoca, che sottolineano da diversi punti di vista il valore simbolico, sacrale e religioso della città nel Medioevo, ci si avvicina a questa complessa realtà urbana, immaginando proprio di percorrere una di quelle strade che conducono fin sotto le sue mura. Le mura e le porte, infatti, proteggono proprio come i muri e le porte della propria abitazione: ispirano dunque nei cittadini un sentimento di sicurezza. Anche qui l’Autrice, affronta l’argomento ricorrendo sia a racconti e testimonianze orali dell’epoca, sia all’analisi iconografica delle miniature e degli affreschi che, pur essendo fonti mute, riescono – attraverso le parole dell’Autrice – a offrire al lettore suggestive narrazioni di vita quotidiana.
Mura e porte, tuttavia, non erano ritenuti una difesa sufficiente a garantire la sicurezza degli uomini. Per tutte le azioni umane, nel Medioevo, era sentito decisivo il sostegno celeste, e in particolare della Vergine, di San Cristoforo e San Giuliano. Chi viaggiava, chi si spostava per i propri commerci o per compiere un pellegrinaggio, si sentiva in uno stato di perenne precarietà, esposto agli assalti di lupi, cani randagi, briganti e armati, mossi da guerre e guerriglie di ogni genere. L’Autrice evidenzia come le guerre, la morte, la distruzione – sia in città che in campagna – siano temi costanti e ricorrenti negli affreschi dell’epoca, tra i quali basti ricordare il Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti.
Anche l’efficienza della rete di comunicazione, portatrice di ricchezza e di vita, era sentita altrettanto indispensabile per la vita cittadina e, per questo, veniva mantenuta in ottimo stato, sgombra da ogni pericolo. Le strade erano indispensabili per approvvigionare la città di derrate alimentari e rifornire il mercato cittadino. Le fonti insistono molto su questo aspetto: la popolazione, ammassata dentro le mura, sentiva l’agibilità dei percorsi viari come essenziale alla sua stessa sopravvivenza.
Nella città medievale descritta dagli Autori avremmo avvertito, una volta oltrepassata la porta delle mura (Capitolo 3), odori contrastanti, alcuni anche decisamente sgradevoli; avremmo udito versi di animali, rumori di carri, scalpiccio di cavalli, rintocchi di campane, voci della gente: rumori e odori diversi secondo le strade e le piazze, i giorni di lavoro e di festa.
Dalle nostre città moderne – immerse nel traffico e nell’inquinamento – sono sparite le voci degli artigiani, che spesso accompagnavano il loro lavoro fischiettando o canticchiando, ma anche le grida dei merciai ambulanti, con la loro mercanzia gradita alle donne e agli uomini che l’acquistavano per donarla alle loro dame. A queste voci si associavano nel Medioevo, secondo codici precisi, i rintocchi delle campane, che ritmavano il giorno e la notte, annunciavano le adunanze politiche e le feste, avvertivano se qualcuno entrava in agonia “in modo che il popolo, ascoltando quei suoni, si raccogliesse in preghiera”, stabilivano che il giorno era finito e il momento in cui coprire o spegnere il fuoco per evitare incendi.
Un flusso quotidiano animava la città. Si stava molto nelle strade e insieme, fra vicini. I commercianti e gli artigiani avevano per lo più la bottega al pianterreno della casa in cui vivevano, ed esponevano i loro prodotti sulla strada, su banchi di legno o in muratura che facevano corpo unico con l’abitazione. La fame di spazio degli interni spingeva a protendersi fuori; le strade si facevano sempre più strette, anche se più animate, perché davanti ai banchi si fermavano uomini e donne a comperare pesce, carne, verdura, pane, ma anche mobili, utensili da cucina e stoffe; insomma, un po’ di tutto.
Data la ristrettezza di case e botteghe, si stava gran parte del tempo all’aperto: si ascoltavano le prediche e le novità, si assisteva agli spettacoli dei giocolieri e degli animali ammaestrati, alle punizioni dei colpevoli, spesso atroci. Le piazze e le strade erano attraversate da mucche, asini, cavalli, muli e maiali , che lasciavano deiezioni fumanti, ma anche da greggi di pecore e capre, dove razzolavano galline e oche.
Non mancavano tuttavia, anche in un giorno qualsiasi, spettacoli impressionanti: poveri e lebbrosi (esclusi dalla città), sporchi e sfigurati, le piaghe, il cattivo odore di chi è costretto a vagare senza potersi concedere un cambio d’abiti o il ristoro di un bagno. A questi si associava la punizione pubblica dei condannati, esposti, nei migliori casi, al dileggio e agli insulti degli astanti, ma spesso condannati a pene assai dure, quando non atrocemente torturati nel tragitto verso la morte, perché le loro grida si imprimessero bene nella mente dei cittadini e li ammonissero ad una diversa condotta.
Medici, speziali e donne- streghe completavano il ritratto di una città dell’Italia medievale, visitata in un giorno qualsiasi. Sia medici che speziali erano ben consapevoli dei limiti dei loro rimedi, per cui gli uomini preferivano ricorrere all’intervento divino, ritenuto troppe volte indispensabile. Tuttavia, prima che a Dio, gli uomini preferivano far giungere le loro preghiere a santi intercessori. Era molto rassicurante, infatti, il pensiero di potersi affidare alla protezione invisibile, ma efficace, del santo che veglia sempre sul suo devoto, anche nel caso in cui era del tutto evidente l’azione risolutiva dell’intervento umano.
In città, era frequente che fossero le donne a intervenire in prestazioni di tipo medico per curare malattie femminili, assistere ai parti, occuparsi del primo bagno del neonato, capaci – se necessario – di preparare le medicine adatte. Più che stregoni, il Medioevo produsse streghe, accusate di fabbricare unguenti magici e di compiere malefici, soprattutto nei confronti di bambini piccoli. Ma l’esperienza e l’abilità delle donne in ostetricia e ginecologia erano troppo preziose perché venissero costantemente mal giudicate.
Nel Medioevo ci si muoveva, insomma, in una natura le cui leggi in gran parte sfuggivano, si percepivano fenomeni di cui si ignoravano le cause, mentre d’altra parte era fortissimo il condizionamento della religione, polo di riferimento per ogni azione umana. Ambiguo è il confine tra fede e superstizione, fra incantesimo e miracolo, quando angeli, demoni e santi sono sempre presenti, pronti a punire e ad aiutare. L’attesa del soprannaturale e dell’aldilà spiegano, almeno in parte, l’approvazione alla caccia alle streghe, ritenute tali non solo dall’Inquisizione che le interrogava, le torturava e le giudicava, ma anche da chi le conosceva bene come innocue vicine, ma sempre pronto a ricredersi.
I bambini, fin da piccoli affidati alla cura delle donne, divengono a questo punto del testo protagonisti del racconto dei capitoli 4 e 5 del volume, in cui l’Autrice si sofferma a riflettere sulla presenza in città dei più piccoli della società, quali ultimi destinatari dell’esperienza urbana che, nel Medioevo, coinvolge qualsiasi aspetto della vita quotidiana. L’importanza della culla, che seguiva il bambino anche negli spostamenti della famiglia, i suoi primi passi con un girello a ruote e i giochi medievali con cui i bambini si intrattenevano una volta capaci di camminare e di correre sono alcuni aspetti positivi dell’infanzia che, però, contrastano con la speranza di vita infantile, piuttosto breve, il lavoro minorile e il furto dei più piccoli al fine di ottenere un riscatto o farne schiavi.
Anche all’istruzione gli Autori dedicano un ampio spazio della trattazione. In molte famiglie i bambini non avrebbero mai imparato a leggere o scrivere, né da piccoli, né da grandi. Ma in una famiglia di mercanti del Trecento, sia l’uomo che la donna erano alfabetizzati. In braccio ai genitori il bambino manipolava, toccava, portava alla bocca, e a questi gesti associava la memoria visiva per un apprendimento precoce alla lettura. Imparare a leggere significava, inoltre, imparare un’altra lingua, il latino, e cominciare a ricevere un’educazione religiosa. Anche le bambine andavano a scuola; più spesso però passavano il tempo a prepararsi per diventare brave mogli e donne di case. Le donne leggevano per svagarsi, oppure per pregare. Frequente l’uso degli occhiali, invenzione accolta con entusiasmo alla fine del Ducento.
Dopo un’ampia panoramica dei protagonisti, degli odori e dei suoni della città, l’Autrice conclude la storia di un giorno in una città medievale osservando lo svolgimento della vita quotidiana all’interno delle mura domestiche (illuminazione, cucina, approvvigionamento idrico, igiene, bagni pubblici…)
Parole-chiave: CITTA’, MEDIOEVO, TEMPO, SICUREZZA, MURA, STRADA, BOTTEGA, CAMPANE, PIAZZA, ANIMALI, POVERI, LEBBROSI, INTERVENTO DIVINO, DONNE, BAMBINI, ISTRUZIONE, CASA, ILLUMINAZIONE, ACQUA.
UTILIZZAZIONE
Il testo presenta un linguaggio molto semplice e chiaro, fruibile sia a livello universitario che a livello di scuola secondaria di 2° grado e, in particolare, da una classe terza di un Istituto tecnico o industriale. Alcune temi, che nel libro insistono particolarmente sull’analisi delle fonti, potrebbero essere affrontati in classe attraverso metodologie laboratoriali, mentre altre parti, più narrative, potrebbero costituire vere e proprie letture di approfondimento sulla vita cittadina dei secoli XI-XII. La presenza di tematiche legate alla vita cittadina dei bambini nel Medioevo e al loro accesso all’istruzione offre – con opportuni adattamenti didattici - spunti significativi anche all’insegnante della scuola secondaria di 1° grado. Il libro si presenta, infine, una lettura utile e consigliabile per la formazione personale di qualsiasi docente, che può attingervi sia per i contenuti, sia per l’analisi delle fonti dell’epoca, sia per l’utilizzo dell’apparato iconografico contenuto al suo interno.
Marilisa Ficara (A043-A050)
SCHEDA
Autore: Paola Galetti
Titolo: Uomini e case nel Medioevo tra Occidente e Oriente
Editore: Laterza
Sede: Roma-Bari
Anno: 2001
Genere: monografia, storia medievale, cultura materiale
Argomento: modalità insediative e tecniche costruttive medievali tra Oriente e Occidente
Biblioteche: facilmente reperibile in molte biblioteche dell’Emilia-Romagna, tra le quali le Biblioteche del Dipartimento di Paleografia e Medievistica (inv. 17150; coll. TESTI 00000000000000163a), Dipartimento di Archeologia di Bologna (inv. 11183, coll. AG M 1059); Discipline Umanistiche (inv. 49500; coll. ESAMI 0000 01760) e della Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali di Ravenna (inv. 13096; coll. Biblico 728.09 GALP).
ABSTRACT
Il volume, articolato in cinque capitoli, utilizza l’immagine della casa per indagare il rapporto più ampio che esiste tra realtà materiale e immagini mentali dei propri modi abitare, posti a confronto con modalità insediative “altre” di cui il Medioevo ci ha restituito diverse rappresentazioni.
Il primo capitolo illustra il contributo delle popolazioni barbariche all’accelerazione della crisi del modello urbano tardo-romano e come, dall’incontro-scontro tra i diversi popoli che abitavano il territorio dell’impero, presero vita tra IV e V secolo nuove forme di organizzazione della vita associata.
In questo periodo, si verificò una semplificazione del mondo germanico attorno a gruppi etnici dominanti, che rimasero distinti fino all’epoca carolingia, quando si avvertì l’esistenza di una parentela comune (pp. 3-8). Questi popoli, organizzati in clan e tribù, abitavano luoghi selvosi, si dedicavano alla guerre di razzia, alla caccia, all’allevamento e all’agricoltura. Il loro tessuto urbano era caratterizzato dall’assenza di città e dalla presenza di villaggi a maglie larghe, con abitazioni in legno e materiali deperibili. Si trattava di un’edilizia semplice ed elementare, basata sullo sfruttamento delle risorse naturali. L’Autrice sottolinea come, anche quando vennero a contatto con la civiltà romana, le popolazioni germaniche mantennero viva la loro “cultura del legno” .
Altrettanto complessa era la galassia dei popoli delle steppe: Unni, Khazari, Bulgari, Avari e Turchi (pp. 8-14). Questi ultimi abitavano in tende di feltro con apertura ad Oriente (yurta) e praticavano caccia e allevamento (quindi si spostavano spesso da un pascolo all’altro) .
Tra VII e XI secolo le fonti attestano l’arrivo di “nuovi barbari”, indicati come pagani e spesso confusi con gli antichi invasori: Slavi, Ungari e Normanni (pp. 14-27). Tre elementi caratterizzavano il sistema abitativo degli Slavi: l’affumicatoio, il silos sotterraneo e la sauna. Il legno era la materia basilare per costruire le abitazioni. Per le parti sopraelevate si usava la tecnica a tronchi d’albero sovrapposti orizzontalmente (Blockbau) oppure un telaio di pali riempito con traliccio di salici (Flechtwerk). In entrambe i casi si potevano intonacare le pareti. I tetti, a due o quattro spioventi, erano realizzati con paglia, canne e tavole di legno. I focolari erano aperti. La luce entrava dalla porta d’ingresso, disposta a meridione. Fumosità e oscurità caratterizzavano queste abitazioni, attorno alle quali si trovavano stalle, granai e magazzini, dove si svolgevano anche attività di artigianato.
Molto simile era anche il sistema abitativo degli Ungari o Magiari, che intorno alla metà del X secolo abbandonarono gradualmente la tenda e la vita errante, e iniziarono a costruire abitazioni permanenti (p. 20). La tipologia insediativa più diffusa presso questo popolo era la casa monofamiliare, rettangolare o quadrata, per metà interrata, con angoli smussati e di modeste dimensioni.
Dalla fine dell’VIII secolo le fonti occidentali registrano nuove genti provenienti dalla Scandinavia: i Danesi, i Gotar, gli Svedesi, definiti genericamente nelle fonti “uomini del Nord”, Nordman, ma anche Vikingi (p. 23). I Normanni erano contadini, artigiani, mercanti e guerrieri. In patria erano soprattutto agricoltori. In ampi spazi forestali, si installarono con piccoli borghi e fattorie isolate. Diffusa presso i Normanni era la tipologia costruttiva della cosiddetta Hallenhaus/hallhouse: unico ampio locale, allargato con l’inserimento di corpi secondari. Le aperture erano ridotte al minimo. Intorno alla casa, rustici e servizi, tra cui la casupola lignea per i bagni di vapore. Lo spazio interno era arredato semplicemente: banchi di terra lungo le pareti e letti mobili. Al centro del grande ambiente vi era un focolare.
L’analisi delle tipologie insediative prosegue nei capitoli successivi con la descrizione della casa contadina (pp. 31-69) e della residenza signorile (pp. 70-101). Da quanto fin qui illustrato emerge chiaramente come, al centro del volume e della riflessione dell’Autrice, vi sia la casa, con tutta la sua polisemia di significati: realtà costruttiva materiale, focolare di una famiglia o di un gruppo allargato, punto di riferimento della tradizione familiare e infine spazio denso di sacralità.
Il secondo capitolo, dedicato alla casa contadina, passa in rassegna le diverse tipologie costruttive, soffermandosi sulle tecniche e i materiali impiegati nell’edificazione delle dimore rurali. Seppur sia difficile individuare precise tipologie di casa contadina, è possibile riconoscere i modelli abitativi prevalenti nelle campagne europee durante il medioevo: la casa a corte, aperta o chiusa; la long house (o longa domus), che accoglieva sotto lo stesso tetto e secondo soluzioni diverse le persone e il bestiame (p. 42 ss.), e infine la casa a struttura unitaria (o elementare), che si contrapponeva all’abitazione a corte e che, quando era possibile al suo interno ripartire uno spazio da dedicare al bestiame, doveva assomigliare molto alla long house (p. 45 ss.). Altra tipologia è la casa con piano superiore, sviluppata verso l’alto (casa solariata), che per vari motivi si affermò più lentamente nelle campagne medievali rispetto alle altre tipologie menzionate (pp. 48-50).
Sia la casa a struttura unitaria che la casa a corte potevano disporre di un solo ambiente o di più di uno; in ogni caso, si trattava di ambienti polifunzionali: focolare, luogo di riposo, conservazione scorte e riparo degli attrezzi. Caratteristiche comuni a tutte le abitazioni erano l’oscurità e la fumosità. Le aperture erano poche; la luce filtrava dalla porta d’ingresso o dagli interstizi tra le assi delle pareti. Il rischio di incendi e le difficoltà nella fuoriuscita del fumo erano problemi all’ordine del giorno. Nelle abitazioni non erano previsti i servizi igienici. Tutt’al più venivano individuati luoghi adatti a queste funzioni, che si svolgevano sempre all’esterno. Gli arredi e le suppellettili domestiche, a tutti i livelli della gerarchia sociale, erano ridotti all’essenziale: si guardava più alla funzionalità dell’oggetto che alla forma. Potevano essere realizzate in diverso materiale, soprattutto in legno; dello stesso materiale erano fatti anche gli strumenti di lavoro (pp.57-63).
Dal punto di vista delle tecniche utilizzate, prima del XII-XIII secolo, in tutta Europa, le costruzioni erano realizzate con materiali deperibili, fragili e poco resistenti. Le tecniche più diffuse erano il clayonnage (graticciato di rami, vimini, variamente riempito negli interstizi con torchis, cioè argilla mescolata con paglia, ciottoli e piccoli detriti); il pisé (in mattoni crudi formati da argilla mescolata a paglia e ciottoli e pressata in una cassaforma) e l’utilizzo di zolle erbose, tagliate a parallelepipedi e disposte come se fossero pietre (rinforzate o meno da clayonnage).
Piuttosto diverse erano le nuove strutture di aggregazione che nei secoli di passaggio dall’età antica all’età medievale ospitavano le famiglie dei ricchi proprietari terrieri. Tra le tipologie abitative di cui potevano usufruire pochi potenti nel Medieovo, nel terzo capitolo l’Autrice descrive: la villa tardoantica, articolata in pars rustica e pars urbana (quest’ultima vera e propria residenza del dominus, costruita con pietra e mattoni e articolata in diversi locali decorati con marmi policromi, mosaici e affreschi); la curtis, anch’essa suddivisa in pars massaricia e pars dominica (centro direttivo in cui risiedeva il proprietario); la residenza fortificata, una nuova forma di aggregazione attorno a nuclei di potentes, che tra IX e X secolo iniziano ad esercitare autorità e giurisdizione in cambio di protezione alla popolazione che, in caso di pericolo, trovava rifugio nelle loro fortezze; la villa rinascimentale, preludio della villa signorile fuori città propriamente detta, luogo del riposo e della villeggiatura dei più ricchi.
Da quanto analizzato, emerge come il mondo delle campagne e delle città medievali europee (di cui l’Autrice tratta nel quarto capitolo) si popoli non solo di uomini, ma anche di quelle strutture di legno, paglia, argilla, pietra, laterizio in cui trascorrevano le loro giornate agricoltori, nobili e borghesi. Case contadine si affiancavano a residenze signorili, castelli e ville rustiche; torri e palazzi cittadini a dimore borghesi più povere e di modeste dimensioni (pp. 103-135).
Ma come la civiltà romana dovette confrontarsi con gli invasori barbarici provenienti da nord e da est, così la civiltà europea dovette a sua volta confrontarsi con altri mondi e civiltà attraverso i resoconti di viaggiatori, missionari, mercanti che avevano visitato la Mongolia, la Cina, l’India e l’Asia centrale, laddove i centri urbani non costituivano sempre il punto di riferimento organizzativo del popolamento. Il racconto di quanti effettuarono questi lunghissimi viaggi in paesi lontani consente all’Autrice si concludere la riflessione storica ampliando lo sguardo ai modi di abitare e agli stili di vita di altre civiltà, e riuscendo nell’intento di mostrare, con efficacia e puntualità di analisi storica, come si presentavano “uomini e case nel Medieovo tra Oriente e Occidente”.
Parole-chiave: CASA, MEDIOEVO, POPOLAZIONI BARBARICHE, LEGNO, CASA CONTADINA, TECNICA COSTRUTTIVA, ARREDO, SUPPELLETTILE, RESIDENZA SIGNORILE, VILLA, CURTIS, CASTRUM, CASTELLO, RESIDENZA FORTIFICATA, VILLA RINASCIMENTALE, CITTA’, ORIENTE.
UTILIZZAZIONE
Il testo analizzato può essere utilizzato sia a livello universitario, da studenti interessati alla storia medievale o allo studio del paesaggio agrario, sia a livello scolastico, per integrare le conoscenze, spesso piuttosto scarne, che i manuali di scuola secondaria offrono sulle struttura abitative di età medievale. La ricchezza del lessico specifico, la chiarezza espositiva e la puntualità dei contenuti e dell’analisi storica, che non trascura l’apporto dell’archeologia e della cultura materiale, consente all’insegnante, di qualunque grado, di utilizzare il testo per ricostruire, anche attraverso metodologie laboratoriali, modalità insiediative di popolazioni ormai scomparse.
Marilisa Ficara (A043-A050)
SCHEDA
Autore: Carla Giovannini
Titolo: Risanare la città. L’utopia igienista di fine Ottocento
Collana: Geografia umana, diretta da Lucio Gambi
Editore: Franco Angeli
Sede: Milano
Anno: 1996
Genere: monografia
Argomento: igiene e sanità nelle città italiane di fine Ottocento
Biblioteche: facilmente reperibile in molte biblioteche dell’Emilia-Romagna, tra le quali si segnalano la Biblioteca Classense di Ravenna (inv. 309216, coll. DEWEY 307.76 10), la Biblioteca del Dipartimento di Discipline Storiche di Bologna (inv. 217770; coll. IV G 0000000000000392 SEXIES), Discipline Umanistiche (inv. 40215; coll. ESAMI 00000540) e la Biblioteca della Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali di Ravenna (inv. 2715; coll. MALIB B 00 0238).
ABSTRACT
Il testo preso in esame affronta il tema della città utilizzando approcci e metodi d’indagine tipici della geografia umana, che l’Autrice richiama brevemente nella Premessa introduttiva. Se da un lato il fine ultimo è la decostruzione di immagini stereotipate di città italiane quali “laboratori d’infezione”, in reazione all’ideologia antiurbana che si afferma a fine Ottocento e che utilizza la Parigi del barone Haussmann come costante pietra di paragone della città moderna, dall’altro si cerca di dimostrare come il processo di urbanizzazione italiano fu molto diverso da quello inglese, sia nei modi, che nei tempi e nei numeri.
Il primo capitolo è dedicato al rapporto tra la città e l’igiene alla fine dell’Ottocento. Partendo dall’analisi dei modelli d’importazione che hanno portato all’ “invenzione” della città italiana, l’Autrice illustra brevemente il caso nostrano di Napoli, evidenziando come quella che prima era la città-emblema della trascuratezza del popolo italiano, nel 1900 viene candidata ad ospitare, in modo provocatorio, l’ “Esposizione d’Igiene”.
L’igiene fu certo una disciplina positiva e di moda alla fine dell’Ottocento, ma aveva obiettivi speculativi molto ambiziosi: aspirava al mantenimento della naturale salubrità ed operava al fine di educare gli uomini al rispetto di se stessi e dell’ambiente. L’Autrice passa quindi ad illustrare, attraverso un linguaggio semplice e chiaro, il processo di formazione dell’utopia igienista, cui si richiama il titolo dell’opera. La grande illusione di un mondo sano e ordinato, controllato e ben amministrato, fu concepita ed elaborata all’interno di un gruppo molto ristretto di persone, in una sede e in un lasso di tempo molto circoscritti. La stagione d’oro degli igienisti risale al ventennio 1870-1890 e, tra i più importanti, si annoverano i nomi di Agostino Bertani, Mario Panizza, Luigi Pagliani e molti altri, tra medici e ingegneri. Luigi Pagliani fu il primo responsabile della direzione di Sanità Pubblica, e a lui fanno capo i progetti di risanamento delle città, le bonifiche del territorio e le prime concrete applicazioni delle teorie igieniste. Il Codice sanitario del 1888, che conteneva i principi essenziali del governo della città in materia d’igiene, rappresentò sicuramente il più notevole passo in avanti degli igienisti di quel periodo e diede il via alla rifunzionalizzazione dello spazio urbano in chiave igienica.
A questa parabola ascendente della questione igienica della città, fece da contrappeso una tendenza di segno opposto, originatasi proprio nelle aule parlamentari negli anni successivi (1898-99). Fu allora che il deputato Del Balzo attaccò tutto il sistema sanitario mettendo in evidenza due situazioni scottanti: l’aumento delle malattie celtiche e le deplorevoli condizioni igieniche del Paese. Al Senato il dibattito fu addirittura più acceso e polemico, e si concluse con alcune modifiche all’ordinamento sanitario: l’igiene, da materia sanitaria, diventava un semplice campo tematico. Tra tutti, la Giovannini segnala i nomi di coloro che si distinsero, nel dibattito, per la strenua difesa delle posizioni igieniste (P. Mantegazza, G. Bizzozero…). Nel 1899, anno in cui si accentra l’interesse delle ricerche dell’Autrice, la direzione di Sanità aveva ormai solo il nome della struttura creata da Pagliani vent’anni prima.
Dopo aver brevemente illustrato lo stretto rapporto tra statistica e inchieste sociali (Capitolo 2, “Il potere dei numeri”), l’Autrice dedica ampio spazio all’oggetto specifico della sua ricerca: l’Inchiesta Sanitaria del 1899, cui accennavamo prima, e la successiva inchiesta sull’acqua potabile del 1903. Dell’inchiesta ottocentesca sono accuratamente riportate le voci del questionario somministrato e la gerarchia di problemi prioritari presenti nella mente dell’ideatore del medesimo. I 17 quesiti del questionario, articolati in più domande, rivelano, in ordine di priorità, grande attenzione per i problemi delle acque, delle reti fognarie, delle malattie e, infine, il censimento delle professioni sanitarie. In ciascuno dei 17 quesiti, sono previsti spazi per osservazioni e apprezzamenti dei compilatori.
L’inchiesta del 1899, conservata manoscritta presso l’Archivio Centrale dello Stato, insieme all’inchiesta sull’acqua potabile del 1903, generata proprio da un segmento dell’inchiesta precedente, costituiscono una fonte utile per la storia ambientale. L’inchiesta del ‘99 descrive il clima igienista che, pur sostenuto dalla legge del 1888, aveva in quegli anni ormai perduto la sua carica innovativa. Si tratta quindi di un valido strumento per indagare il grado di penetrazione dei principi dell’igiene nella pubblica amministrazione e la loro assunzione a regola di comportamento da parte della popolazione. Nonostante ciò, si rileva la mancanza di volontà da parte degli ideatori dell’inchiesta a cedere a questo processo di revisione del ruolo della loro disciplina.
Ma non solo. L’inchiesta sanitaria del 1899 offre all’Autrice anche la possibilità di esaminare il rapporto tra alcuni specifici elementi urbani e l’igiene (case, strade, aria, acqua…). Dalla normativa in materia di strade alle norme e i regolamenti sulle industrie insalubri o site nei comuni al di fuori del capoluogo, l’Autrice passa in rassegna i dati statistici e qualitativi forniti dall’Inchiesta. Anche all’acqua viene riservato ampio spazio nella trattazione (Capitolo 7), perché “l’acqua deve essere come la moglie di Cesare, pura in ogni aspetto” . Nei confronti dell’acqua potabile, gli igienisti maturarono una sensibilità per molti aspetti più avanzata rispetto a quella descritta per le altre infrastrutture igieniche, una sensibilità che si tradusse in una forte pressione per sconfiggere le resistenze delle amministrazioni locali e de governo centrale a concedere fondi e finanziamenti. Ma, nel 1899, nonostante si fosse approvato l’utilizzo delle condutture a tubo e della distribuzione domestica rispetto all’uso di cisterne (poco igieniche), c’erano ancora molte questioni da chiarire sull’acqua: la quantità, i costi, i materiali per la rete di distribuzione e la collocazione dei tubi.
In Parlamento si accesero impegnative discussioni ed emersero due schieramenti opposti (on. Valle da un lato, on. Fortis dall’altro), a riprova del fatto che, ancora alla fine del XIX secolo, anche in un settore fondamentale della sanità pubblica come quello dell’acqua, i principi igienisti faticavano a imporsi. Non per questo si arrestò la fiducia nelle grandi capacità di penetrazione dei principi dell’igiene nella pubblica amministrazione e, nonostante le discussioni parlamentari e le accese polemiche, un progetto per la diffusione dell’acqua potabile nell’intera penisola venne elaborato con nettezza e precisione: “la coscienza di un bisogno basta molte volte ad attuare per spontaneo impulso una grande riforma”.
Anche alle fognature (Capitolo 8), Carla Giovannini dedica un certo numero di pagine del volume. Il nesso tra la salubrità dell’ambiente urbano e l’efficiente smaltimento dei rifiuti era acquisizione consolidata negli ultimi anni del XIX secolo e la necessità di una rete fognaria era avvertita come un’esigenza primaria di ogni agglomerato urbano. Ingegneri idraulici e igienisti progettavano e studiavano impianti fognari solo per le aree densamente popolate, rafforzando l’opinione che i miasmi, l’aria di cattivo odore prodotta dai rifiuti organici, fossero prerogativa delle città. La trattazione prosegue, quindi, con un dettagliato excursus sulle proposte di realizzazione tecnologica delle reti fognarie urbane elaborate da igienisti e ingegneri sanitari alla fine dell’Ottocento e si conclude con un ampio stralcio di risposte di medici provinciali e di ufficiali sanitari alle domande del quesito IV del questionario dell’Inchiesta del 1899, quello relativo alle reti fognarie.
Gli ultimi tre capitoli del volume sono invece, dedicati alle patologie della città (malattie urbane e malattie ambientali; Capitolo 9), alla terapia della città (Capitolo 10) e, infine, al punto di vista dei medici (Capitolo 11). I quesiti più propriamente sanitari dell’Inchiesta, quelli relativi alla malaria e alla pellagra, al gozzo, al cretinismo, all’anchilostomiasi (quesiti XI-XVII) fanno luce su una campagna malsana dominata da malattie endemiche. Le parole dei medici provinciali sono vivaci e incisive e lasciano supporre la necessità di un intervento al di là delle città, che interessi anche le “insalubri” campagne. Nella mente degli igienisti la città e la campagna, pur trattate con diversa gradualità d’interesse e distinzione di problemi, sono legate da un comune vincolo igienico, mentre per i funzionari amministrativi sono distinte da un netto e invalicabile confine amministrativo. Tutto ciò ha finito col produrre effetti negativi nel governo delle città e del territorio italiano.
In sede conclusiva l’Autrice osserva come le pagine di Pagliani, scritte nei primi anni del Novecento, siano testimonianza di un progetto ormai interamente fallito, “epitaffio di quell’utopia igienista” che mirava alla tutela sanitaria della popolazione, ottenuta mediante la rimozione delle cause di insalubrità da qualunque fonte provenissero. Il punto di vista degli igienisti produce una rappresentazione speciale dello spazio urbano, che risulta finalizzato al raggiungimento di minime condizioni igieniche. Si tratta, quindi, non di urbanisti, ma di tecnici che orientano e condizionano i politici, ove questi manchino ai loro doveri di risanatori. La fine del progetto illuministico che avevano tracciato numerosi intellettuali, tra cui Cattaneo, di disegnare un saldo legame tra specialisti e istituzioni è forse riconoscibile proprio qui, a proposito dell’igiene, tematica che denuncia con forza, attraverso gli occhi severi degli igienisti, le arretratezze del Paese e il faticoso adeguamento delle città italiane di fine Ottocento al progresso tecnologico e dei servizi.
Parole-chiave: CITTA’, IGIENE, IGIENISTA, UTOPIA IGIENISTA, INCHIESTA SANITARIA, QUESTIONARIO, QUESITO, ACQUA, ARIA, RETI FOGNARIE, INGEGNERE SANITARIO.
UTILIZZAZIONE
Il testo, opera di una docente dell’Università di Bologna da diversi anni impegnata in ricerche nell’ambito della storia urbana, presenta un linguaggio chiaro e un registro linguistico medio-alto. La frequenza di termini specialistici, molto adatti a esperti del settore o studenti universitari, rende necessaria un’operazione di selezione e adattamento del testo al fine di consentirne un’utilizzazione anche a livello scolastico da parte di una classe V di scuola secondaria di secondo grado. I temi relativi all’igiene, ai rifiuti e alla sicurezza ambientale, oltre ad essere argomento di attualità, costituiscono infatti un ambito interdisciplinare che consente all’insegnante di variare l’approccio didattico e interessare, coinvolgendo, alunni e insegnanti in un percorso di consapevolezza che il testo, qui preso in esame, aiuta a tratteggiare.
Marilisa Ficara (A043-A050)
SCHEDA
Autore: Carlo Lefbvre
Titolo: Sviluppo regionale e reti di città
Editore: Franco Angeli
Sede: Milano
Anno: 1999
Genere: monografia, geografia economica
Argomento: il ruolo delle città nell’ambito dello sviluppo regionale
Biblioteche: il volume può essere consultato o richiesto in prestito presso la Biblioteca Universitaria di Bologna (inv. 570827, coll. T 4510/ 570827).
ABSTRACT
Nel volume preso in esame, Carlo Lefebvre affronta il tema del ruolo delle città nell’ambito dello sviluppo regionale, o meglio di quel fenomeno tipicamente geografico che viene definito “regionalizzazione”. Tutto ciò è in sintonia con le ricerche e gli studi che l’Autore conduce da diversi anni sulle trasformazioni delle reti urbane, e in particolare della regione Abruzzo, dove è titolare di un corso universitario di “Geografia urbana e organizzazione territoriale” (Università di Chieti, Facoltà di Architettura).
Il primo capitolo focalizza il processo di regionalizzazione alla luce delle più recenti teorie dello sviluppo regionale. Numerose teorie del passato (Rostow, Myrdal, Perroux) avevano già posto alla base dello sviluppo economico fattori che possono essere ricondotti alle peculiarità geografiche del luogo. Il pensiero geografico, tuttavia, secondo l’Autore, ha da tempo abdicato al compito di individuare gli specifici fattori geografici nel processo di sviluppo, preferendo il ricorso a sofisticate tecniche statistiche o a raffinati modelli matematici, senza elaborare una loro decodificazione teorica. Si tende, quindi, negli ambienti esterni al pensiero geografico, a considerare ‘geografia’ qualunque proiezione spaziale di fatti economici e sociali. Tutti si occupano di territorio, gran parte delle scienze sociali si occupano di spazio, ma occuparsi di spazio non significa necessariamente che questo spazio sia analizzato in chiave geografica.
La geografia ha quindi assunto un ruolo di secondo piano nelle teorie di sviluppo regionale: spesso si è limitata a mutuare da altre discipline schemi interpretativi per descrivere la successione di crescita di città o di sistemi urbani o, non ha superato, come osserva Losch, il descrittivismo, e non si è focalizzata sulla costruzione di una teoria in grado di spiegare il ruolo delle componenti geografiche nei processi di sviluppo. Inoltre, il ruolo sempre più rilevante attribuito dalle teorie economiche alla componente territoriale ha acuito la tendenza a convergere su una lettura più economica che geografica. In realtà, il pensiero geografico – osserva Lefebvre – ha intuito le sue carenze, ma non è stato in grado di codificare, all’interno delle teorie di sviluppo regionale, un tema centrale della ricerca geografica, la regionalizzazione, in cui l’obiettivo non è certo la partizione del territorio in aree ma, per utilizzare le parole di Vallega, l’individuazione del processo che “può essere inteso come l’insieme dei cambiamenti cui va soggetta l’organizzazione della regione nel corso del tempo”.
All’interno degli studi regionali, la città ha assunto sempre più un ruolo chiave, a partire dagli studi di La Blanche fino agli studi della scuola americana del Middle West, dalle monografie di Blanchard agli studi di Christaller.
Proprio Walter Christaller, con la pubblicazione nel 1933 della teoria delle Località Centrali (riferimento teorico principale degli studi sulle reti urbane), rappresenta la chiave di volta per l’approccio funzionalista, che ha le sue radici nella prima metà del Novecento, ma che si struttura a partire dagli anni Cinquanta. Secondo questo approccio, la regione viene interpretata come un’area in cui si generano effetti di attrazione e diffusione, determinati da una concentrazione di elementi dotati di capacità di polarizzazione. Secondo il concetto di spazio funzionale, il territorio può essere interpretato, oltre che come complesso di forme, anche come sede di elementi tra loro eterogenei e, in qualche modo, collegati con l’insediamento umano. Il funzionalismo si configura, quindi, come un approccio scientifico centrato sulle funzioni prodotte dagli elementi di una struttura (centri urbani) e sulle interdipendenze che fanno, di essi, un’entità più vasta, ma integrata e dotata di coesione. Attraverso la formulazione di ipotesi teoriche e metodologiche e l’applicazione sempre più ampia di metodi quantitativi, il pensiero funzionalista si focalizza soprattutto sullo studio delle reti urbane e sull’individuazione dei processi di regionalizzazione. Tuttavia, la concezione funzionalista della regione, non è stata ancora in grado di formulare una teoria generale della regione, che tenesse conto della globalità delle funzioni presenti sul territorio. Lefebvre ricorda, inoltre, che la regionalizzazione, interpretata come approccio geografico allo sviluppo regionale, si fonda sempre meno su un concetto di continuità areale e di stabilità temporale e sempre più su un’organizzazione a rete: non sono tanto le località ad essere centrali quanto, osserva Christaller, le funzioni. La teoria delle Località centrali, con l’affermazione del principio di “gerarchia” e di “distanza economica”, ha fornito per molti anni un modello sufficientemente valido per l’analisi e lo studio delle reti urbane, che costituiscono un ampio settore della letteratura geografica. I principi di questa teoria sono stati in seguito utilizzati come cornice teorica di riferimento per la costruzione di modelli gravitazionali, modelli di posizione e modelli di interazione spaziale.
Gli elementi di discontinuità nel processo di sviluppo regionale sono, invece, argomento di trattazione specifica del secondo capitolo. Alla nozione di sviluppo regionale concorrono infatti numerosi fattori: il comportamento dell’individuo nella società, la famiglia, le classi sociali, le differenze rurale-urbano, l’estensione dell’unità sociale, l’effetto della cultura sulle istituzioni, l’integrazione tra i valori culturali, le caratteristiche morfologiche e climatiche della regione in cui la popolazione vive. L’antropologia moderna ha dimostrato che i differenti comportamenti delle popolazioni hanno riflesso sul comportamento economico. La formulazione di modelli di sviluppo spazialmente discontinui e il ruolo strategico assunto dalle caratteristiche dell’ambiente in cui l’impresa opera portano inequivocabilmente alla constatazione che è lo “spazio geografico” che incide in modo significativo sullo sviluppo regionale . La città, o meglio le reti di città, come luogo di concentrazione e integrazione, sono il luogo principe in cui, in virtù della loro stessa natura, delle loro caratteristiche, dei fattori storici, culturali, ambientali, si esprimono e si sintetizzano le “discontinuità dello spazio geografico”. Lo sviluppo regionale viene quindi illustrato dall’Autore attraverso la teoria degli stadi di Rostow e Gershenkron, e le sue implicazioni sul piano geografico, sociale e tecnologico.
Nel terzo capitolo Lefebvre affronta le teorie di sviluppo regionale. A partire dagli anni Settanta, con modalità e tempi diversi, nelle regioni più sviluppate dei paesi economicamente più avanzati, si sono registrate profonde trasformazioni nei modelli organizzativi delle attività produttive e mutamenti rilevanti nella composizione e nel ruolo del terziario. Negli anni Ottanta il corpus di teorie sullo sviluppo regionale ha subito un profondo riesame, perché mutati sono gli scenari di riferimento. I nuovi filoni di pensiero si sono, quindi, sempre più allontanati dalle teorie macroeconomiche aggregate e hanno rivolto la loro attenzione ai modelli disaggregati, in grado di individuare i comportamenti microeconomici che guidano i processi di crescita e di sviluppo, introducendo il paradigma dello “sviluppo dal basso”. Nella maggior parte delle teorie dello sviluppo regionale , le caratteristiche dello spazio geografico raramente sono state inserite come fattore-chiave per la misurazione delle cause e dei divari di sviluppo. Tuttavia, recentemente, alcune teorie hanno inserito tra gli elementi-chiave la città, in quanto luogo deputato delle funzioni a più alto contenuto di informazioni; essa diviene, secondo Francesco Compagna, “elemento centrale e motore dello sviluppo”.
Una delle ricorrenti critiche alle teorie dello sviluppo regionale riguarda, invece, la mancata considerazione dei parametri dello spazio e del tempo. Non sono quindi tenute in debita considerazione le diverse condizioni storico-culturali e le caratteristiche socio-economiche regionali che stanno sempre più acquisendo un ruolo centrale e strategico e le cui differenze costituiscono un fattore-chiave nella spiegazione dei diversi sentieri di sviluppo seguiti.
Le grandi aree urbano-industriali, sulla spinta del nuovo paradigma delle tecnologie dell’informazione, stanno radicalmente cambiando la loro base economica. Con la presenza sempre più pervasiva dell’Information Technology, i processi di internazionalizzazione delle produzioni e di globalizzazione delle economie stanno spostando il terreno della competizione dalla dimensione regionale e nazionale a una dimensione planetaria, in cui le grandi aree metropolitane, per competere e risultare vincenti, devono garantire un insieme di requisiti per la cui realizzazione solo oggi si inizia a riflettere e a formulare opzioni sulle loro modalità di attuazione.
Le differenzazioni geografiche acquistano, di conseguenza, un ruolo chiave nell’individuazione, descrizione, quantificazione delle diverse opportunità o dei diversi vincoli che determinano traiettorie differenziate di crescita. Il modello dello sviluppo endogeno, cui l’Autore dedica il quarto capitolo del volume, si basa infatti sul principio che i più importanti fattori di sviluppo sono in molti casi “localizzati”; riguardano, prevalentemente la capacità dei sistemi produttivi locali di elaborare, acquisire, adottare innovazioni, le potenzialità della forza lavoro locale, la cultura imprenditoriale, l’ambiente tecnologico e scientifico, le infrastrutture e i servizi presenti sul territorio, la rete delle relazioni funzionali e gerarchiche tra imprese. Di fatto, i modelli di tipo endogeno non si basano solo su variabili endogene, e quelli esogeni non incorporano al loro interno solo fattori esogeni. Nello sviluppo endogeno deve essere necessariamente introdotta l’interazione tra variabili endogene ed esogene, tra locale e globale, tra l’internazionalizzazione delle conoscenze e fattori esterne, in una dinamica di circolazione dell’informazione e dell’innovazione.
E’ quindi opportuno, all’interno di modelli di sviluppo regionale, combinare fattori esogeni ed endogeni, soprattutto in una fase storica delle economie avanzate come quella attuale, in cui internazionalizzazione e globalizzazione delle economie, trasferimento delle tecnologie, organizzazione reticolare delle imprese e delle informazioni, difficilmente possono essere relegate solo all’interno di un approccio endogeno.
Gli ultimi capitoli del volume sono dedicati, rispettivamente, alle trasformazioni che il sistema produttivo ha subito nei paesi di più antica industrializzazione e a più elevato stadio di sviluppo, con i nuovi modelli organizzativi della grande impresa, la sempre maggiore sostituzione di beni fisici con beni immateriali e con il peso crescente della componente tecnologica (Capitolo 5); alla terziarizzazione dell’economia secondo modelli differenziati ed eterogenei (Capitolo 6) e all’analisi delle reti urbane, definite da Cori “l’insieme gerarchizzato delle città che organizzano la vita sociale di una regione” (Capitolo 7).
In conclusione, il volume di Lefebvre, attraverso una disamina delle interconnessioni tra pensiero geografico e teorie economiche dello sviluppo, delinea i fattori in grado di superare il descrittivismo e di riportare in primo piano il ruolo della geografia nella definizione di politiche d’intervento sulla città e sul territorio, integrando sempre più la disciplina nelle scelte decisionali, attraverso una ricomposizione teorica e un’adeguata riconversione dei metodi ai mutati scenari post-industriali. L’accelerazione data anche dall’Unione Europea alla questione urbana fa emergere, in modo sempre più netto, il ruolo centrale dell’approccio geografico ai temi dello sviluppo regionale e la necessità che il pensiero geografico operi un profondo riesame e una sistematizzazione dei contributi che, a lungo, hanno costituito una sorta di “scienza parallela e ausiliaria”, di grande spessore culturale, ma scarsamente operativa.
Parole-chiave: SVILUPPO REGIONALE, REGIONALIZZAZIONE, RETI URBANE, FUNZIONALISMO, SPAZIO GEOGRAFICO, GERARCHIA, DISTANZA ECONOMICA, POLARIZZAZIONE, SVILUPPO ENDOGENO,
UTILIZZAZIONE
Come suggerito anche dall’Autore, il testo è destinato agli studenti dei corsi universitari di Geografia economica che introducono, nelle metodiche della geografia, un ruolo attivo, integrato e non subalterno a quello delle altre scienze sociali. La complessità del linguaggio e dei livelli di analisi, altamente specialistici, non consentono una sua utilizzazione o spendibilità in ambito scolastico.
Marilisa Ficara (A043-A050)